Presentazione libro "IL TURCO IN ITALIA"

Presentazione libro "IL TURCO IN ITALIA"
Novembre 15, 2013 Commenti disabilitati su Presentazione libro "IL TURCO IN ITALIA" Eventi wp_7992244
Il turno in Italia

L’Associazione Culturale dei Sardi in Toscana comunica che venerdì 29 novembre alle ore 18.00, presso la libreria IBS Bookshop di Firenze in Via de’ Cerretani 16/r, si terrà la presentazione del libro “Il Turco in Italia” di Joyce Lussu, la scrittrice sarda d’adozione scomparsa nel 1998.

Nel corso dell’evento, organizzato dalla casa editrice L’Asino d’oro in collaborazione con Librerie IBS e A.C.S.I.T., interverranno la scrittrice Antonietta Langiu e la nostra presidente Fiorella Maisto,

Quando nel 1958 Joyce Lussu e Nazim Hikmet si incontrano per la prima volta a un congresso per la pace a Stoccolma, lei non conosce una parola di turco, lui si esprime in un francese sgrammaticato e fantasioso. Eppure Joyce, attraverso la conoscenza diretta del mondo ideologico, etico, estetico e psicologico di Hikmet, delle esperienze che l’hanno formato, degli autori che lo interessavano, della sua famiglia, dei suoi amici e dei suoi nemici, è stata la prima traduttrice italiana del più importante poeta turco del Novecento. Attraverso quest’agile e brillante biografia di Nazim Hikmet, Joyce Lussu racconta in prima persona il loro rapporto di amicizia, facendo emergere con abili pennellate sia l’Hikmet uomo che l’Hikmet poeta, senza tralasciare aneddoti curiosi come la rocambolesca fuga da Istanbul.

Per leggere un’intervista sul testo a Joyce Lussu clicca su LEGGI TUTTO!

Si ricorda che nel corso dell’evento saranno raccolti dei fondi destinati alle popolazioni sarde colpite dall’alluvione.

BREVE BIOGRAFIA DI JOUCE LUSSU

Nasce a Firenze nel 1912, con origini familiari anglo-marchigiane. I genitori antifascisti sono costretti ad allontanarsi da Firenze, dopo aver subito un brutale pestaggio. In esilio in Svizzera Joyce e il fratello Max ricevono un’educazione cosmopolita e anticonformista. Studia filosofia a Heidelberg e si laurea prima in lettere alla Sorbona, poi in filosofia a Lisbona. Dal 1933 al ’38, intraprende rischiosi viaggi in Africa e compone le sue prime poesie, apprezzate anche da Benedetto Croce. Nel 1938 va a Ginevra per incontrare clandestinamente Emilio Lussu. L’amore tra i due è immediato e le loro vite rimangono unite in un tenero rapporto coniugale di forte intesa intellettuale e politica. Joyce riceve la medaglia d’argento della Resistenza come staffetta partigiana. Il suo impegno continua con la scrittura, impegnandosi per la conquista dei diritti civili delle culture più emarginate, come il popolo curdo. Traduce il più grande poeta turco: Nazim Hikmet e la poesia d’avanguardia africana e asiatica. Cerca di diffondere soprattutto tra i giovani la memoria storica, base della consapevolezza e responsabilità morale. Muore nel 1998, lasciando oltre 20 opere scritte sui temi che più l’hanno coinvolta e interessata.

INTERVISTA DI GIANFRANCO DE MAIO
A JOYCE LUSSU SUL LIBRO “IL TURCO IN ITALIA”

Alla fine di luglio ’98, l’incontro con Joyce Lussu era reso necessario perché la sua via maestra veniva doppiamente incrociata in essenziali elementi dalla ricerca esistenziale e letteraria che avevo in corso. La signora, come immaginavo, è molto anziana, disponibile subito a ricevermi nonostante l’estrema calura di quei pomeriggi. Non immaginavo fosse diventata cieca. Oltre alle classiche stupende versioni delle Poesie d’amore di Nazim Hikmet, avevo di recente letto
i suoi Tradurre poesia e Il turco in Italia.

D: Leggo, signora Lussu, in “Tradurre poesia”: “Traducendo i poeti li
porto in Italia. E non sento affatto la necessità di specializzarmi ogni volta nello studio di una lingua e di una letteratura…”

R: “Non ci ho nemmeno provato. Mi sarebbe pure interessato, io amo molto le lingue e generalmente le ho imparate con molta facilità. Però quello che mi interessava di più era di capire che cos’era, per esempio, questo mondo turco, questo modo di pensare e di agire dei turchi, avendo trovato una persona come Hikmet che metteva tutto in questione… A me interessava proprio il nocciolo duro del turco, una cultura ridotta al silenzio, quella del mondo contadino, dell’immensa maggioranza dei turchi. Era dunque molto più importante, per tradurre Hikmet, conoscere il suo mondo, e ho studiato la storia della Turchia, pur non studiandone la lingua. È uno dei luoghi più antichi della convivenza umana, almeno per noi occidentali. Lì sono le radici della nostra intelligenza… A me interessava sapere da dove vengono, perché questa è una scoperta che era venuto facendo Hikmet stesso. Lui che proveniva da famiglia agiata di cultura ottomana, e mista, perché la ricerca della donna per l’uomo ottomano era molto ampia, aperta al mondo, a un certo punto trova facce diverse, che si trovano nella depressione e repressione, senza la possibilità di esprimersi. Allora cerca di capire quello che c’è nella testa di questa gente, che ha occhi così intelligenti e commoventi, nel senso che sono pieni di cose represse. Decide di assumersi la responsabilità di rappresentarli poeticamente utilizzando la sua grande capacità di impatto comunicativo, e non per lasciarli dove sono, ma per portarli avanti verso qualcosa di diverso. Anch’io sono appassionata di questa cosa. Perché quando vedo esseri umani che sono repressi e compressi, e privati della voce, e persino della loro identità, io mi sdegno, m’arrabbio, m’incazzo. E allora gli presto la voce, ma per prestare questa voce bisogna sapere il fondo del loro pensiero e delle possibilità. A me più che i voli pindarici, interessa il pensiero equilibrato del buon senso, ossia di tutto ciò che si può fare per cambiare le cose e andare avanti”.

D: Mi sono recentemente avvicinato al tema del popolo turco, considerandone un gruppo particolare, che probabilmente Hikmet (scomparso nel ’63) non ha potuto conoscere, i turchi che vivono nei paesi del Centroeuropa come immigrati, quindi come forza lavoro… Un personaggio tra il reale e il romanzesco su cui sto lavorando è un ragazzo di etnia turca, nato e cresciuto in Germania, che per non essere carne da macello, prova a sottrarsi al sistema attraverso quella che a diciotto anni gli pare essere la massima opportunità di liberazione, la liberazione sessuale, e pertanto si avvia per circuiti di hard business, di cinema pornografico, e si trova a ventitré anni che è stato comunque carne da macello. Decidendo di avvicinarmi a questa storia per scriverne, volevo allora sapere che genere di echi risuonassero nella sua vicenda, che tipo di favole, di storie, di lingua avesse sentita…

R: “No, secondo me probabilmente è troppo inquinato. È troppo inquinato proprio dall’Occidente. Perché questo legarsi alla prostituzione, o alla pornografia, è una cosa che ha imparato dall’Occidente. Non gli viene certo dal profondo della sua esperienza storica”.

D: Siccome la possibilità di redenzione, non in termini religiosi ma civili, deriva anche dal recupero di radici, lei crede che per una persona che come lingua materna, in casa, ha parlato turco, ma per lingua sociale usa il tedesco, la carica della lingua turca in questo ritmo tedesco, è segata, schiacciata? Può una persona così divisa tentare un recupero del genere?

R: “Attraverso una lingua così diversa come il tedesco direi di no. Perché quando tu assumi il tedesco, assumi anche quello che è il pensiero tedesco annidato in questa lingua. È impossibile che rimani indenne in questa operazione, e conservi la tua personalità, o qualcosa della tua tradizione. Io direi che, va bè, un turco che fa questa operazione si germanizza e basta, senza la possibilità né la forza di portare dentro a questa nuova lingua un po’ della sua essenza”.

D: Dovrebbe riuscirne da questa lingua. Dovrebbe andare a recuperare qualcosa che gli appartiene…

R: “Eh certo! Dovrebbe andare a recuperare gli avi, l’idea degli antenati. Come è presente in certa letteratura afroamericana. Popoli espropriati che cercano di trovare nell’idea degli antenati qualcosa di se stessi. Ma generalmente l’inquinamento, l’assuefazione, sono arrivati a tale punto che è difficile. Oppure diventa una cosa eccessiva, ossia molto retorica alla fine, e non reale. Per cui mi domando se ci riescono, perché non sembra, per esempio, che questa immissione di tanti africani negli Stati Uniti abbia portato poi loro a tornare in Africa con qualcosa in più, qualche cosa di agibile per una trasformazione della società. Io credo che anche in Africa la trasformazione della società avviene dall’interno della loro cultura. E Nelson Mandela è un esempio molto luminoso di questa capacità di trapasso”.

D: Lei fa la traduttrice, porta “dentro” le poesie, però ha materialmente portato fuori i poeti, ha fatto evadere dal Portogallo Agostino Neto, ha fatto fuggire da Smirne la moglie e il figlio di Hikmet…

R: “Io penso che questa gente, se ha un minimo di spazio per usare le proprie energie, ha un’inventiva, una creatività particolarmente forte perché vengono da così grande espropriazione. Hanno la possibilità di immaginare cose che ancora non ci sono, ma che ci potrebbero essere. L’utopia non è l’illusione, un sogno, una fantasia, tutt’altro! L’utopia è sempre qualcosa che s’intravede all’interno della realtà storica. È all’interno del possibile storico, non c’è ma ci potrebbe essere. Ti presenta un progetto possibile all’interno della realtà”.

D: Sì, ma spesso gli intellettuali, in favore del prigioniero politico, del poeta oppresso, si limitano alla manifestazione davanti all’ambasciata. Lei invece ha preso ed è andata sul posto, ha creato le condizioni per cui la liberazione fisica avvenisse. Questo è il passaggio decisamente insolito.

R: “Questo mi viene anche dall’esperienza del fascismo in Europa e in Italia, per cui il desiderio fisico della liberazione dal carcere, da una situazione assolutamente bloccata, ce l’ho fin dalla nascita. Già i miei genitori erano dei libertari, era della gente che rifiutava l’autoritarismo fascista, o quello della Chiesa, o quello di certe filosofie. Ciò, trasportato nel mondo, mi faceva seguire tutti i movimenti anticoloniali e mi rendeva attenta a considerare la spinta energetica che poteva portare a una trasformazione in meglio. Non ho mai fatto un viaggio turistico o culturale; sono andata solo nei posti dove succedeva qualcosa di nuovo e di diverso, perché quello che mi interessava era la gente che incontravo, il mio simile il cui cervello si è messo in moto e che mi insegna qualcosa. E mi hanno colpito, e commosso, dati assolutamente popolari, acquisibili da tutti, proposte politiche e artistiche che non creino divisioni e gerarchie. Le citazioni, per esempio. Nella letteratura italiana se non conosci la mitologia greca, la mitologia romana e le sacre scritture, non ci capisci niente. La citazione richiede uno stato di privilegio, come aver letto un libro. Non troverai mai una citazione in queste poesie che io ho tradotte, in tutta questa grande poesia della liberazione, e mai niente che consenta a uno di sentirsi superiore semplicemente perché ha un privilegio”.

D: Andare sul posto. Bene, allora vorrei continuare a raccontarle questa cosa particolare che mi è successa. Ho saputo che quel ragazzo, quell’attore turco-tedesco di cui prima dicevo, era contattabile, e sono andato a trovarlo dieci giorni fa in Moravia, dove vive adesso. Ho incontrato un ragazzo che a ventitré anni è consapevole di vivere una situazione bloccata…

R: “Sì, ma tu non devi cercare casi speciali nella vita. Cerca i casi più comuni, perché sono delle storie meravigliose i casi comuni della vita, ed è molto più interessante che cercare la cosa sensazionale. Non bisogna mai usare il sensazionale per i racconti. Bisogna sempre partire da una cosa comprensibile a moltissima gente, e comune a moltissima gente. Zavattini, che era un buono scrittore, diceva: ‘Mai considerarsi un caso speciale!’ Allora, non andare a cercare tutti ‘sti casi strani! Quelli poi vengono da sé, da altre parti. Ma se tu vuoi approfondire la Turchia, o qualsiasi realtà di questo mondo, cercala nelle persone comuni”.

D: Ma se si tratta di un sensazionale che turba anche me, e che mi
mette in crisi… non ne vale la pena?

R: “No, assolutamente! Questo è sempre un saltar fuori dalla realtà”.

D: Mhmm…

R: “…è un cercare le forti sensazioni. Quelle vengono da sé con la gente più comune di questo mondo… È la ricerca appunto dell’uomo comune che è tipica della cultura positiva di questo momento storico. Invece generalmente lo scrittore va a cercare il caso sensazionale. Per me è tutto sbagliato”.

D: Ho capito. Eh, dovrò rifletterci un po’.

R: “Riflettici!”

D: Mi dà un bello stop!

R: “Eh sì! Io volevo fare una collana di vite vissute, chiamandole ‘Storie di ordinaria straordinarietà’ o di ‘straordinaria ordinarietà’ perché in effetti, di questo secolo così stravolto da guerre, movimenti di popoli, scontri, protagonista è stata la gente sballottata da tutte le parti, e dunque la gente più semplice, quella che avrebbe voluto avere la famiglia, un lavoro, stare in una casa… insomma queste cose normali, e non ci riesce perché è sballottata”.

D: Posso tornare un attimo sull’eccezionalità a cui faceva riferimento prima? Perché vede, va bene non cercare il sensazionalismo esterno a noi, ma se si tratta di qualcosa che nasce anche dalle proprie debolezze… Faccia conto: c’è una persona normale, uno che esercita un’arte liberale, che ha nella sua vita delle situazioni ambivalenti, un po’ scabrose, per esempio può essere un fruitore di quel materiale di cui dicevo prima…

R: “No! Non gli fa bene. Non fa bene a nessuno, né a lui, né a voi. Né a voi che lo scrivete. Qui il problema è di trovare un minimo di norma. Cosa vuol dire essere normale? Ma la cosa più difficile del mondo è questa. Non è trovare l’anormale. Un minimo di norma che non può essere basata né su
ideologie né su religioni né su filosofie, ma semplicemente su principi. Per esempio, quando si dice che tutti quelli che nascono su questo pianeta avrebbero diritto di mangiare abbastanza, si enuncia un principio, non un’ideologia; e bisogna uscir fuori da ideologie, religioni e filosofie che hanno mandato allo sbaraglio tutte le forme di pensiero. Bisogna che si fissino alcuni punti precisi di principio. Siccome per me la vita è al centro di tutto, dato che ho solo questo e ci tengo, mi sta simpatica, allora tutto ciò che è contro la vita, che la offende, la diminuisce, che la accorcia, la mutila, è sbagliato, non può essere la norma. La norma invece è innanzitutto tendere a eliminare la violenza fisica, la sofferenza fisica indotta. E allora intanto limitiamo il campo. Ora secondo me l’avversario che bisogna assolutamente superare è questo, quello che ti impone un dolore fisico non necessario, che ti spaventa, perché la creazione del potere è semplicemente la facoltà di spaventare a morte il tuo simile. La schiavitù da dove viene? Come è successo coi grandi animali, il bue, il cavallo, questo stesso modo di agire applicato al tuo simile ha gli stessi effetti. Allora cominciamo da lì. Scriviamo delle storie su questo. A me non me ne frega niente di queste deviazioni della follia… Hikmet diceva: voi occidentali siete curiosi, voi prendete un uomo, gli va male tutto, l’amore, il lavoro, la salute, e avete una storia. Prendete una persona di buon senso, che riesce a risolvere il fondo dei suoi problemi e per voi non è una storia. Ma che gente siete?”

D: Ma esisteranno anche delle esperienze di riscatto individuale…
persone che…

R: “Ma no! Il riscatto individuale interessa poche persone. L’importante è parlare un linguaggio che può arrivare a tutti, perché tutti hanno dei problemi, non è vero che non ci siano, che qualcuno ne rimane fuori. Allora parliamo dei problemi che sono maggioritari, ossia che sono della maggioranza. L’importante in questo mondo è sentirsi maggioranza, e non fare i burattini delle minoranze, o delle avanguardie, o simili sciocchezze. Che me ne importa a me di una avanguardia di dieci persone! M’importa di quello che è maggioritario, come il desiderio di salvaguardare la vita. Così nella produzione artistica. Chi non si proietta nel futuro in qualche modo, chi non ha un briciolo di utopia, non è. Basta con questa descrizione del passato, è una passeggiata nei cimiteri! A me interessa solo la letteratura, o qualsiasi espressione letteraria, che contenga qualche cosa rivolta all’avvenire”.

D: Cioè, per lei la narrazione fine a se stessa non ha senso.

R “Ma sì, narrazione può essere qualsiasi cosa, ma perché sempre e solo descrizione del passato? Poi addirittura del peggio del passato… Perché si cercano queste storie sensazionali, che, francamente, a chi possono interessare? Che cosa portano nel cervello? I racconti sono importantissimi, noi esistiamo perché ci raccontiamo. Le zone del nostro passato che non sono raccontate non esistono per noi. Ma questo deve venire collegato alla capacità creativa di modificare il futuro in meglio. La semplice descrizione di ciò che è già successo non ti porta nulla, tanto quello non lo puoi modificare. Invece bisogna parlare, discutere di quanto possiamo modificare. Questo è un elemento di mobilità, di creazione. Dovremmo proprio stimolare la gente a pensare al futuro. Futuro su cui possiamo formulare tante ipotesi, qualcuna anche positiva, non è detto che tutto debba essere sfascio, rovina e precipizio verso il nulla”.

D: La prendo come una pungolata da parte sua.

R: “Sì, potremmo fare un convegno su questo. E sentire anche un po’ di gente, invitare delle persone un po’ diverse. Io suggerirei Vandana Shiva.
Dovresti leggere Sopravvivere allo sviluppo e Monocolture della mente. Sai, la monocoltura è nociva per la terra, ma per il cervello pure… Abbiamo finito? Tu sei soddisfatto? Vuoi sapere altre cose?”

D: Sono molto soddisfatto. Anche se mi ha introdotto a molti dubbi, per cui credo la disturberò ancora dopo l’estate.

R: “Certamente Hikmet come poeta è un riferimento mondiale. Ora gli anglosassoni si sono impadroniti di lui e ne stanno preparando una sterminata biografia. Spero non ne facciano una telenovela, perché credo che l’andazzo sia quello. Si fa presto a mistificare su queste cose… Ora che farai in prosieguo? Che farai di questa intervista?”

D: Se vuole, dopo averla sbobinata e trascritta gliela sottoporrò, prima di darla alla pubblicazione…

R: “No, no. Mi fido di te. E poi hai ben diritto di dire quello che ti pare. Se poi hai qualche dubbio mi telefoni, me lo chiedi”.

D: In ogni caso prendo in parola l’invito che mi fa, di tornare a trovarla.

R: “Ma sì. E vedremo un po’ di questa proiezione nel futuro che è un elemento essenziale del linguaggio artistico. Uno usa l’arte proprio per questo, per potersi proiettare nel futuro, non solo fare questa infinita descrizione del passato. Bisogna saper essere progettuali, perché la vera creatività è questa. Il resto non è creatività, è semplicemente per fare i conti o chiudere i conti di un registro. Un po’ poco…”

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